Il Deserto dei Simulacri
Nel cuore pulsante di Riyadh, tra le luci accecanti dei grattacieli e le ombre mutevoli proiettate sui marmi lucidi del Ritz-Carlton, una delegazione di uomini in abiti scuri si muoveva con l’eleganza programmata di automi da gala. Le telecamere li seguivano con occhi invisibili, come entità onniscienti che registravano ogni respiro, ogni cenno, ogni silenzio.
All’esterno, il deserto si estendeva con il suo muto sarcasmo, impassibile alle decisioni che venivano prese tra calici di cristallo e strette di mano controllate. Riyadh, città di miraggi solidificati, era il palcoscenico di un rituale che si ripeteva all’infinito: accordi senza sostanza, parole senza carne, visioni senza peso.
Ma qualcosa stava accadendo. Un soffio di vento proveniente dall’Oriente portava con sé una nota diversa, una vibrazione sconosciuta. In un altro angolo del pianeta, lontano da quella geometria sorvegliata, le strade di Mosca, Pechino, Nuova Delhi e Teheran brulicavano di un’energia diversa. Nei palazzi di San Pietroburgo e nei quartieri antichi di Shanghai, nei vicoli di Isfahan e nei mercati di Mumbai, si stavano scrivendo nuove storie, con inchiostro denso e reale.
Là, non c’erano simulacri, ma carne e ossa. Là, le strette di mano erano sporche di polvere, non di convenevoli. Le lingue parlate erano molteplici, eppure si comprendevano tutte in un unico lessico: quello dell’interesse reciproco, della strategia, della mutua promessa di futuro.
Nel Ritz-Carlton di Riyadh, tra i lampadari e le fioriere perfettamente posizionate, le conversazioni continuavano a scorrere come un fiume di olio raffinato. Gli uomini in nero si osservavano a vicenda con la freddezza di chi sa che nulla di tutto quello che dice avrà davvero un impatto sul tempo.
Fuori, il vento portava la sabbia nelle strade vuote. Un soffio caldo si insinuava tra le porte automatiche, come un presagio che nessuno era pronto a decifrare.
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